Gerardo Pepe
  Racconti brevi
 

Incipit vari 

IL FUMO DI OSWIECIM

Silenzio. Ritrovo il silenzio e nuvole grosse, nere. Sembrano di marmo. Enormi blocchi di granito che esiliano l’azzurro in un angolo di cielo. C’è silenzio e calma. Un devoto rispetto. Chiunque entra in questo posto avverte un inspiegabile senso di colpa. Anche io.

Non ricordo di aver mai visto il sole da queste parti. Il fumo. Si, tanto fumo. Dirigo gli occhi verso le ciminiere. Adesso non vomitano più quel fumo denso, acre, che allontanava persino gli uccelli.

Il cancello. Lo ricordo bene. Leggo “Arbeit macht frei”. Mi fermo. Non sono più tanto sicuro di varcare quella soglia. L’erba sotto i miei piedi è bianca, gelata. Forse si è posato un velo di neve. Camminarvi sopra produce uno stridio. Come se dei lamenti germinassero dal sottosuolo. Il cuore pulsa forte, le mani sudate le faccio affondare nelle tasche del cappotto.

E’ difficile dimenticare. E forse non ha nemmeno senso. Io non ho voluto cancellare nulla degli anni trascorsi qui. Niente. Anzi ogni sera mi sdraio sul letto ed invece di pregare Dio mi sforzo di ricordare un evento, un viso, un gesto, un giorno trascorso tra le mura fredde di Oswiecim. Non ho rimosso nulla, non voglio difendermi dai ricordi. Il mio passato ed io siamo come l’inchiostro su di una pergamena. Raschiando l’inchiostro rischierei di distruggere la pergamena stessa, rovinando insieme a quelle immagini una parte di me, la mia identità.

Ho disposto, invece, i miei ricordi nel teatro della mente. Sono riuscito ad osservarli da un altro punto di vista. Non ero più l’attore che si muoveva sul palcoscenico, ma lo spettatore nascosto nel buio della sala, avvolto nel silenzio. Ho tentato di rifare i conti con la memoria del dolore, ma non credo di esserci riuscito del tutto.

Le nubi s’ingobbiscono e si anneriscono. Pioverà tra poco. I pochi visitatori si allontanano. Io resto ancora sul varco indeciso se entrare o ritornare in albergo, aspettare l’aereo che mi riporterà in America. Sono sollevato di essere l’unico visitatore, ma intimidito dal ferro aspro. La solitudine è il cerchio magico che mi sono tracciato intorno. Non permetto a nessuno di superarlo.

 Inforco gli occhiali da sole, anche se il sole non c’è, voglio proteggermi dal freddo.

Forse non voglio essere riconosciuto da quelle pietre, ho paura che rivedendomi possano parlare ancora, gridare, domandarmi qualcosa a cui non saprei rispondere...


Cieli nuovi terre nuove

Quando leggerai queste mie parole capirai che ho deciso di partire, forse non ti meraviglierai troppo di questo mio gesto che a molti può sembrare azzardato, se non folle. Il cielo, questa antica coperta, in questa parte dell’universo, è diventato troppo fragile per contenere le mie speranze e tu sai che quando i pensieri gelano diventano pesanti ed il cielo li fa precipitare. Ogni giorno ho lottato per  resistere alla penosa, eppur rassicurante, quotidianità, ma poi questo vento freddo ha divelto le mie ultime resistenze e ho deciso di affrontare l’avventura verso nuove terre.

Qualcosa tra di noi è rimasto sospeso però, partire senza avere l’occasione per salutarti è forse da maleducati, forse un mio ulteriore atto di vigliaccheria, e per questo che ho deciso di scriverti. Se ti avessi parlato, le parole sarebbero diventate spade o forse più semplicemente aghi, avrebbero prodotto tagli o piccole escoriazioni, ma col tempo si sarebbero dissolte senza che ne ricordassimo con esattezza il senso. Come tanti ricordi che lentamente scivolano dalla memoria senza fare rumore. Invece questo mio breve scritto resterà tra le tue mani finché vorrai, per sempre o il tempo necessario per leggerlo e poi distruggerlo, dipenderà solo da te.

Adesso che viaggio in alto mare vorrei parlati del silenzio, forse non dovrei scriverti, non si può scrivere del silenzio magari tra una parola e l’altra dovrei lasciare degli spazi vuoti, delle lunghe righe vuote finirebbero per riempire il foglio e tu non capiresti il senso delle mie parole.

E’ cosi difficile parlarti del silenzio che avverto intorno a me; a volte si crede che il silenzio sia semplicemente un’assenza di suoni, basterebbe non parlare e tapparsi le orecchie eppure si sentirebbe il rumore del corpo i battiti del cuore, il sangue che pulsa, lo stomaco che borbotta.

Non riesco a descriverti il silenzio che mi è capitato di sentire, è strano sentire il silenzio?

Il mondo è rumore e l’esistenza produce frastuono, persino l’erba secca e quindi morta, ieri ho provato a sistemare il prato, ha una voce, ma io non riesco a trattenere alcun suono né riesco a seguire il sentiero del silenzio. A volte penso che il silenzio si nasconda e tocca a noi cercare di scovarlo eppure io non voglio conoscere niente di lui, non voglio arrivare a quello che nasconde.

Se il rumore è l’esistenza, il silenzio appartiene alla morte, al mondo che si crede immobile e perfetto eppure quanto rumore giunge ai morti: i lamenti, le preghiere e il vento che arriva ovunque persino sottoterra. Credo che la morte sia un luogo molto affollato e più rumoroso di quanto si possa immaginare.

Il silenzio…proverò a raccontarti un sogno che ho fatto la notte scorsa: sognavo il mare, sogno sempre il mare, era in tempesta. Onde bianche di spuma arrivavano ai miei piedi, io stavo in un luogo sicuro, almeno lo supponevo, poi ho visto mia figlia avvicinarsi alle onde, venire minacciata tutta quella schiuma bianca. L’esortavo a raggiungermi invece lei mi sfidava, non allontanandosi dal pericolo.

Mi sono svegliato per salvarla, alla prossima onda sarebbe scomparsa nella tempesta, io destandomi ho avvertito un grande silenzio.

Credimi non è paura, è qualcosa di più, ci sono attimi che ti travolgono, si intrufolano dove sei più fragile e prima ancora che te ne accorga, prima che tu senta di possederli, sai che hai vissuto un attimo di puro, assoluto, concentrato silenzio.

Forse è proprio questa mia fragilità che mi consegna al silenzio, che neppure il continuo latrare del cane riesce a disturbare: la chiarità che folgora il buio, l’amore che rende pazzi o saggi o forse tutte e due le cose assieme potrebbero darti l’idea che ho del silenzio?

E’ forse la percezione netta è precisa di un sentimento che ci avvolge e ci isola e nello stesso tempo ci fionda dritti dritti nel nostro tempo?

Non saprei risponderti e non ti ho scritto perché ho trovato la soluzione, non c’è bisogno di trovarla.

Volevo solo farti sapere che vivo ancora in questa confusione, che mi fa dimenticare a volte di tenere gli occhi aperti, come se bastasse abbassare lo sguardo per non riconoscere tutte le mie mancanze e quando li riapro sento il fruscio del lento fluire di questo tempo che tutti chiamano vita e solo io silenzio.

 

LA STRADA DEI PICCOLI FIORI

 

Mi trovo all’aeroporto di Phnom Penh. Il mio aereo dovrebbe partire tra un’ ora circa. Con me a bordo. Dopo tre mesi di soggiorno. Vorrei lasciare questo paese immediatamente, non ho visitato la Cambogia dei turisti. Quella la trovi in bella mostra su tutti i depliants delle agenzie di viaggio.  No, sono stato chiamato altrove. Ho delle immagini terribili che vorrei scacciare dagli occhi, ma ritornano nel sangue, dentro di me. Non riesco a dimenticare…

Tre mesi fa vivevo a Milano. Adesso so che tre mesi fa ero un uomo alla deriva. Quando sono partito ero completamente esausto, credevo la mia vita un inferno. Il direttore dell’ospedale, un essere senza scrupoli, le infermiere delle arpie, insomma, mi sentivo circondato da gente malvagia. Mangiavo tutti i giorni con svogliatezza. Mettevo su chili. Poi, per smaltire, pagavo salate mensilità ad un palestra attrezzatissima. Dormivo agitato in un comodo letto, al caldo d’inverno e fresco d’estate grazie al condizionatore che avevo acquistato a rate. Le stagioni passavano senza infastidirmi. O meglio c’era qualcosa che mi infastidiva : la noia. Una noia terribile che mi divorava.

Poi ho conosciuto per caso Don Bruno. E’un prete piccolo di statura, con i baffi spessi e setosi e uno sguardo penetrante che ti lascia sconvolto per la capacità che ha di leggerti dentro. Lui mi accennò alla possibilità di un breve soggiorno in Cambogia, lì viveva una persona che aveva bisogno d’aiuto. Il suo nome è Nguyen Maa .

Don Bruno non mi spiegò molto su quel viaggio, mi ripeteva che ero la persona adatta e che aveva fiducia in me. Sapeva dell’incidente e della mia noia. Io non ho mai nutrito molta stima nei miei confronti. In quegli ultimi periodi mi sentivo l’ultimo uomo della terra. Mi mancavano i sorrisi, le urla e gli abbracci…mi mancheranno sempre. Persino le litigate e i musi lunghi. Ho cambiato casa, ma non è servito a nulla.

Così decisi di partire, all’avventura, sostenuto da Don Bruno, in realtà fuggivo dalle nebbie malinconiche di Milano, dalla tristezza di quei giorni di amara solitudine, con la speranza di trovare qualcosa  di meno insopportabile del silenzio di casa mia.

Ora, finalmente riesco a piangere. Mentre aspetto il volo di ritorno. Ma ho vergogna. Mi rifugio nella toilette. Mi siedo sul cesso e piango. Vorrei raccogliere tutti i piccoli fiori di Sway Pak per portarli a casa mia, ma non ho un giardino adatto e so che i piccoli fiori appassiranno in fretta, moriranno, magari stanno gia morendo, mentre io inutilmente piango in questo cesso.

L’unico consiglio che mi diede Don Bruno fu quello di armarmi di spirito di adattamento, non avrei alloggiato certo in un Grand Hotel e non ci sarebbero stati dei camerieri pronti a servirmi la prima colazione. Non ci sarebbe stata la colazione. Forse nemmeno la cena. Io pensavo ai miei chili di troppo e alla fatica che facevo in palestra. Non sapevo che cos’era la fame, ma conoscevo bene il dolore in tutta la sua ampiezza, in tutte le tonalità. Dal cupo violaceo, al rosso sangue, al bianco delle notti .E di certo non mi spaventava saltare dei pasti

Arrivai a Phnom Penh a fine Agosto. Durante l’anno non avevo consumato nessun giorno di congedo perciò potevo trascorrere l’intero periodo senza problemi. Erano già due anni che non consumavo le ferie, me le pagavano. Quel denaro rappresentava la mia infelicità, il mio fallimento per questo portavo i soldi in chiesa e li infilavo nella cassetta di raccolta per le missioni. Non era un gesto eroico, una generosa offerta, anzi era l’ennesima vigliaccheria che mi faceva vergognare. In fondo non mi interessava molto l’attività dei missionari, il mio bisogno era di liberarmi dei soldi che ancora una volta marcavano la mia forzata solitudine...

 

 
 
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