Gerardo Pepe
  Poesie
 

 

 

POESIE

PER IL PADRE PERSO

E

PER IL FIGLIO RITROVATO

 

AD UN FIGLIO

 

Dietro l’ultima luna nuova

sprofonda il mondo tra foglie di rosa.

La ragione è un’immagine senza sangue

un pianeta poroso

alla deriva nella notte

di glicini neri.

 

Agili ore aprono cassetti riempiti di sogni:

tu, che mi parli senza sbagliare,

comprensibile anche alle stelle;

oppure scrivi lunghe pagine di pensieri,

che forse per avarizia o timore,

serbi solo per te.

Sei felice come io non penso

che si possa essere felici.

E’ forse questo il mio sbaglio ?

 

Quello che la vita lascia incompiuto

il sogno ripara

E così cadono le immagini

sul mio volto umido.

Mi accorgo dell’abisso e

del mio cammino rasente.

 

E nel quieto silenzio nulla ho da dirti,

perché è solo mio questo peccato.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorni improvviso.

 

Ti sei avvicinato

troppo al sogno.

 

Non dovevi destarmi.

 

Ora so che abiti

la lontananza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Immagino il tuo cammino

oltre il nero dell’orizzonte.

 

Potresti essere di nuovo bambino,

ed io padre a cullarti;

o ancor più canuto,

ed io figlio ad ascoltarti;

Avere ali,

ed io a mirare il tuo volo.

 

Ma resta il sangue

dentro ai sassi

e respiri di terra.

 

Posso, in un’immagine grigia,

carezzare il ricordo dell’amore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Verso sera

i passi ritornano a casa,

si quieta l’uscio,

le bifore stanche

calano le palpebre.

Nell’immenso ripostiglio

del mondo

ogni oggetto riprende

il suo posto

eppure una scheggia

rotola sulla pelle, nelle parole

e dentro i pensieri.

 

E’ la tua assenza

che non ha logica.

 

La morte è una pietra

che nasconde sangue,

il vuoto dell’assenza:

un letto con un guanciale

solo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
Un giorno

ho pensato alla luce

ad un campo d’orzo

ad un fiore azzurro.

Così ti ho immaginato

come un’ora d’estate

dopo un duro inverno.

Il mio seme gioioso

ha illuminato il ventre

di tua madre

C’era armonia

in quel pensare

e mi cullavo

anche io

regredito ad abbozzo di vita

nell’utero beato delle mie

illusioni.

 

Un giorno

senza luce

bruciò le speranze d’ottobre

sulla lingua

caligine e ferro

ed un fiore zoppo

nel prato.

A volte si sceglie

l’ombra, il baccello

delle lacrime

l’abbraccio buio

della luna

per proteggere

il cervello dal

vedovile dolore.

 

Ma tu mi hai cercato

come una radice

cerca l’acqua

il tuo sorriso di piuma

ha disciolto

la notte della casa

ed io posso immaginare

vedendo i tuoi occhi

la gioia di Dio

quando diede fuoco alle stelle.

 

 

 

 

 

 

 

Io ti aspetterò qui

in questo posto freddo

che sa di vecchio cortile

di terra battuta.

Ti attenderò

senza attendere

la tua voce ne saluti

in silenzio

quieto

come il passaggio

di una nuvola.

 

Perché ci sarà

un posto dove

non riconosceranno

i tuoi occhi obliqui

dove i tuoi pensieri

brilleranno

sulle ombre dei sospetti

dove le differenze

cesseranno

di farci soffrire.

 

troverai le parole giuste

per fermare

le mie lacrime

che non vogliono

essere piante.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi basterebbe sapere

di trovarti là

nella stanza accanto

alla mia

seduto sulla tua sedia

a bere

proverei a chiamarti

per ascoltare

il tuo silenzio.

 

Nel frastuono

di una camera

il colpo di un fucile

ricorda la morte

svuota le case

e le sedie

riempie di immagini

la memoria.

 

Quella stanza che fu vuota

solo per l’ora delle lacrime

riannoda le solitudini

e germinando muore

il ricordo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vorrei prendere tra le dita

un tuo pensiero

L’osserverei per vedere se c’è sangue

l’addenterei per scoprire se è di metallo

o cioccolata.

Se nasce dal vuoto

il mio destino è di riempirlo?

Se è vero che i nostri pensieri sono

la parte migliore di noi stessi

io non ti conosco.

 

E per conoscerti resto

a guardarti mentre

ti addormenti

anche stasera

non sveli nulla

dei tuoi segreti.

 

Mi leggi dentro

e cancelli i miei

brutti sogni

senza ribellione.

 

Getto le mie mani tra i tuoi capelli

cerco non so più cosa

forse il passato ed il presente

di un’abitudine che non si perde.

 

Come bagliori mi riscaldano

le tue confusioni

nel mio sguardo le raccolgo

l’esca  che splende

sul volto dell’acqua

affoga i pensieri senza timone

scusami anche stasera

ho sbagliato

ti ho giudicato

invece di amarti

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando nevica

penso ai morti

a mio padre

chissà se ha freddo

 

No.

Sono io il punto

di sutura tra la morte

e la dimenticanza.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

C’ è silenzio in aprile

l’amore lontano

mille nuvole folli

cercano il cielo

il cielo non imprigiona

i suoi figli.

E quel sole cattivo

semina ancora cuori di luce

invece

io ti cerco

nel buio della morte.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Dalla finestra la luna

guarda Francesco.

 

Non dorme.

 

Occhi davanti al vetro

tra le fessure dell’imposta.

 

Nessuna parola.

 

Eppure la luna e Francesco

si parlano

 

Io non capisco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il dolore che conosciamo è fermo

lungo questi giorni

con le foto sui comodini

e si resta confusi se alla memoria

non risale il ricordo della voce.

Qui, da fuori il marmo, noi pensiamo

ancora a vivere

come a dimenticarci di non soffrire.

E da un moto inatteso, lungo la strada

che si restringe nella città

davanti ad una caserma vuota

ritorna una luce di posti già visti.

Si può piangere per uno sguardo

non condiviso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Appendo questi versi

nel vuoto dell’infinito

non per resistere al tempo

ma per correre

nella direzione opposta

al dolore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ricorderemo come

belle le parole

che un tempo

ci apparivano inutili

e anche i giorni

quelli in cui non

succedeva nulla

saranno cimeli

da spolverare

con devozione.

 

Quando resteremo soli

dietro le finestre

a guardare

il passato

come ad una storia

vecchia e distante

scopriremo che

fummo felici

a nostra insaputa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il grande nespolo non porta

frutti, troppo freddo da queste parti,

mi consigliano di tagliarlo.

Io difendo la sua sterilità e lo osservo

stagliarsi sempre più in alto nel cielo.

L’hai piantato tu

ti divertivi a

interrare ogni seme che ti capitava tra

le mani e poi sorpreso annunciavi

il nuovo germoglio.

Forse è questa eredità che mi rattrista

stasera,

penso all’inutile sforzo delle fronde

di raggiungerti in cielo

e tu naufrago da questa esistenza

non avere più semi da piantare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Come saranno i tuoi anni senza di me?

Non ci sarò a coprirti le spalle

a darti quella forza che ti manca

per poterti salvare da solo

Io con l’insaziabile

fame di padre

mi nutro dei rimorsi

e della pena di affidarti

anni di cui non conosco

le stagioni.

Cercherai tua madre

più di me

con lo stupore

che è in te

ci penserai

là dove si può essere

solo immaginati

come i sogni che t’inventi

la sera prima di dormire.

 

Ma anche nella mia legittima pena

continuo a sbagliare

immaginandoti sempre

eterno bambino

tu traccia luminosa del mio cielo

saprai inginocchiarti  e pregare

e dopo chiederti

perché ti ritenemmo

indifeso

se per tutto il tempo

della nostra vita

ci salvasti

dal non esistere

semplicemente

amandoci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

18/04/03

 

 

 

Dentro di me, mio padre:

un suono, un viso, un profumo

il silenzio di pomeriggi  nella

casa che rispettava il tuo riposo

o l’allegria dell’improvviso ritorno.

 

Uno spazio. Uno spazio sacro

Ritagliato nel tempo. Uno spazio interiore.

Un tracciato oscuro nella valle iridescente

del cuore.

 

Io, unico possessore, per sempre rifugio.

 

Mio fratello non torna col pensiero a colui

che ha perso, non riconosce il posto vuoto.

 

Non ha senso sopportare tanto castigo.

Cerca la fuga, ma c’è solo questo fuggire.

Dovunque ti trovi sarà con te la sua assenza

dovunque cercherai ci sarà un altro vuoto,

nostro padre non è la dimenticanza,

è dentro di noi:

la nostra coscienza di uomini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL FIGLIO IMMAGINATO

 


A  volte

l’ombra del grillo

ritorna

a macchiare

la parete bianca.

 

Ti sorprende

sull’uscio

il suo arrivo

e quando

entri

la casa non ti

sorride come

aveva promesso.

 

Invece di smarrirsi

tra la folla del

Luna Park impazzito,

ritrova la strada

di casa:

spalanca la finestra,

lascia alla notte

il silenzio del cuore.

 

Cresce nei pensieri

di cristallo,

come se esistesse

per davvero nelle

ore di sabbia

sgranata dal tempo.

 

Saluta un attimo

e poi all’improvviso

se ne va.

 

Sa di essere ormai

un intruso

fra quelle mura,

dove può ritornare

solo come un sogno.

E quella ferita buia

sul muro

è la mia voce

che invocherà sempre

il vento di smeraldo

per poter immaginare

un viso

che non incontrerà

mai il mio sguardo.

 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Diverso da chi ?

 

Com’è difficile accarezzarti

senza la tentazione di scivolare

verso un’altra esistenza,

verso un volto

che non t’appartiene,

e che non vuoi.

 

Ogni sera

dovrei spogliarmi

dei luoghi comuni,

di crudeli pregiudizi,

delle disperate aspettative

e restare nudo

davanti ai tuoi sogni

di luce perlata.

 

Ascoltare il tuo respiro,

seguirne il ritmo

per poi scoprirlo

simile al mio,

uguale al moto

perpetuo dell’Universo,

forse diverso

ma solo per

occhi distratti.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mio figlio

 

Non ti racchiuderò

nell’angusto mio cuore.

Non travestirò

il mio egoismo

con inutili premure,

ma ti regalerò

all’Universo,

lasciando che

il destino

ti plasmi

a suo modo.

Solo così ti

restituisco

alla vita.

I tuoi occhi,

semplici, fieri,

mi fanno sentire

povero, insicuro,

ma le tue mani generose

mi raccolgono,

mi comprendono.

 

Ora, so quanto

è infelice

la mia felicità;

è come il mondo

visto dal tuo

sguardo obliquo:

a metà e senza vento.

E mentre le tue parole

non pronunciate

mi ringraziano

non mi resta che

chiederti perdono

per il mio essere

un genitore

imperfetto.

 

 

 

 

 

Un pomeriggio d’inverno

 

Dicembre dagli occhi grigi

spalanca il suo sguardo velato

e nel morto cielo

vola con ali sfarinate

un suono o una mano

o forse solo il tuo viso

di polvere.

Ti vedo

leggero come la calligrafia

d’una antichissima pioggia

o è solo la mente che va in

cerca di memorie?

Esisti ancora

come un pensiero scolpito

nella roccia,

come frantumi di grano.

 

Ed il torrente della malinconia

sa come raggiungere

la collina festosa,

sa bagnare le ore dell’alba,

e la rugiada è solo il gesso

dell’amarezza,

la nebbia che s’alza quieta

e seppellisce un giorno

che la vita invecchia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non pensavo

di avere nostalgia

delle tue mani,

quelle mani che erano

strade di temuti silenzi,

schiarivano il giorno

con albe di tenera gioia

serravano la porta

lasciando la notte

di sciamanti spettri

lontano da me.

 

Quante volte ci siamo

abbracciati

tenuti stretti

eppure le tue mani

diventano un sogno

di cui non rammento

che il calore.

Quelle mani che

hanno carezzato mia madre

e hanno squarciato la notte

della mia esistenza

chiamandomi per nome,

sussurrando pensieri.

 

Quelli mani che

mi hanno baciato

e picchiato

erano radici nella terra

dei miei pensieri e

nuvole in passaggio

dentro al mio cuore.

 

Vorrei stringerti ancora,

ritrovarti per strada mentre

fumi una sigaretta,

aggrapparmi alle tue mani,

quelle mani

che erano la mia casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Preghiera

 

Il mio è un crimine

senza nome

eppure ti chiedo perdono.

Non so dire bugie

non conosco la verità

resto in silenzio

davanti al tuo silenzio

che mi giudica

e scontorna la mia essenza.

 

Ma io non voglio

essere l’acquitrino

dei tuoi pensieri,

il solco dove

le radici si macerano

in sguardi d’ortica.

Esisto come quarantasette

stelle hanno voluto.

E’ forse questo che

ti allontana da me?

Non sono il sogno

in cui ti rifugi

la speranza che ti consola

ma la pietra che ti lancia

ogni giorno la folla dei normali

ma tu non dimenticarti

che il mio è un crimine senza nome

perdonami…

io già l’ho fatto.

 

 
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